Friday 30 April 2010

Agorà

Quello sciocco del mio amico Michele, che non ha capito che, adesso, l'agorà è qui, ed è questo lo spazio pubblico dove ci si confronta, non scrive su internet, e così tocca farlo a me per tutti e due. Uffa.

Il mio amico Michele, dunque, che capisce sempre molte cose e in questo caso ha visto quel che io non vedevo, nota che c'è qualcosa che manca, nel film di Amenabar, e manca gravemente: proprio l'agorà.
L'agorà, la piazza, lo spazio pubblico della discussione (e del mercato), non esiste in questo film se non come luogo dello scontro, anzi delle risse che "sono cose da schiavi e da marmaglia", dice la protagonista, senza evidentemente rendersi conto che quello a cui sta parlando è proprio uno schiavo, ed è allo stesso tempo il migliore dei suoi studenti, Davo, che lei tratta con affetto e paternalismo.
Luogo delle risse, della plebe, dunque, di cui giustamente la plebe cristiana si impadronisce, perché è numericamente più forte, e lo è perché ha dalla sua queste forze micidiali: l'uguaglianza e la carità. Davo, che all'inizio del film non è cristiano, ma si dichiara tale quando si tratta di impedire che una sua compagna sia punita per la sua religione, lo diventa quando Ammonio gli insegna a fare l'elemosina - gli insegna la carità cristiana, e gli dice: "questo è il vero miracolo", e anche "adesso sei un vero soldato di Cristo".
Mentre, nel film, the mob, i cristiani, si impadroniscono della piazza, pensavo a Ettore e ai suoi "la facciamo, la rivoluzione?", ma anche a George Sorel e al mito dell'esercito di Cristo come primo mito rivoluzionario - e pensavo: questi la stanno facendo, la rivoluzione, questa è la rivoluzione, la prima, il mito, quella a cui tutte le altre fanno riferimento, l'ideale originario  a cui si ri-volgono.
L'Ipazia di Amenabar ha perso, e insieme a lei abbiamo perso tutti due millenni di musica, filosofia, matematica, storia, poesia ... e ammiri la dignità con cui va consapevolmente al martirio. Ma non è l'Ipazia della storia (che ha perso anche lei, beninteso, e molto più ferocemente di quanto il pietoso Amenabar racconti), quella di cui la Suda racconta che
La donna era solita indossare il mantello del filosofo ed andare nel centro della città. Commentava pubblicamente Platone, Aristotele, o i lavori di qualche altro filosofo per tutti coloro che desiderassero ascoltarla. Oltre alla sua esperienza nell'insegnare riuscì a elevarsi al vertice della virtù civica.
Ipazia era un personaggio pubblico, una persona ascoltata, e non perché il prefetto era innamorato di lei (perché, quando si tratta di una donna, deve sempre entrarci l'amore? Lo immaginate un film su Spinoza in cui, non so, è rilevante che una cameriera o uno dei fratelli de Witt fossero innamorati di lui?), o perché era la maestra di persone importanti come lo stesso prefetto o il vescovo di Cirene. Era una maestra, ed era ascoltata, e lo era anche perché aveva insegnato a tutti, pubblicamente, nell'agorà, a chiunque volesse ascoltarla. Secondo il principio platonico che tutti siamo uguali rispetto alla capacità di vedere la verità, e di ricercarla. Questa è l'agorà che manca.

Poi, manca per una ragione, perché quello che ad Amenabar preme è evidentemente un'altra cosa: non lo spazio pubblico, ma quell'essenza del conflitto fra religione e filosofia che è tutto riassunto in ciò che Ipazia risponde al vescovo Sinesio. Quando questi le dice: anche tu sei una persona buona, e sei tu che mi hai insegnato che siamo tutti uguali, quindi sei cristiana anche senza saperlo, lei gli risponde:
"voi non dubitate di quello in cui credete:  non potete. Io devo".
Ed è veramente tutto in questa frase (anche la ragione per cui, religiosissima come sono, non sono e non posso essere cristiana): qualunque cosa sia la fede, la fede impone a un certo punto di fermarsi e smettere di dubitare - non importa dove collochi quel confine, o quanto agio ci sia all'interno, il confine c'è, ed è ciò che separa un "credente" da un "non credente".
Io devo dubitare. Non: "non posso farne a meno", "non sono convinto", o "sono uno scettico". Devo: è mio preciso dovere credere, eventualmente, soltanto dopo che ho dubitato, messo in questione, dissentito, rintracciato il senso e i sensi molteplici in cui una cosa è vera, e falsa. Soltanto dopo, e se, e forse. Non: manco di fede, ma: la mia fede mi impone questo. "I believe in philosophy", dice Ipazia.
Mentre Sinesio, prima ancora studente e di nuovo venticinque anni dopo, dice: se metti in discussione il sistema tolemaico, metti in discussione l'ordine del mondo, quindi Dio, quindi offendi me e la mia religione. Dubitare è offendere. E' un diverso rapporto con la verità e con l'ordine del mondo - un mondo alla rovescia, per noi filosofi. All'inizio del film, Ipazia spiega che la terra è il centro del mondo, e in seguito dice: l'idea che il mondo non abbia un centro mi spezza il cuore. Nel pieno della crisi, la cosa più importante per lei è scoprire che la forma dell'orbita terrestre è l'ellissi, non il cerchio - e non è scema, o pazza: quella è, davvero, la cosa essenziale. Essenziale scoprire un ordine del mondo, o una verità, o un aspetto della verità, dopo aver a lungo dubitato, e perché si è dubitato - un ordine in cui puoi credere perché ne hai dubitato in tuti i modi e in tutti i sensi: è questo il suo dovere e la sua religione.

Così, il film di Amenàbar non è affatto anticristiano - sì, il vescovo Cirillo è il cattivo, ma non lo è il vescovo Sinesio, e non lo è affatto, anzi è il personaggio più nobile, e bello, e tragico del film, lo schiavo e poi parabolano Davo. Del cristianesimo questo film dice la carità, e l'uguaglianza, e anche la nobiltà, non soltanto il fanatismo.

Ma è anticristiano in un altro senso, e questo è per me il senso più rigoroso, e inappellabile:
you cannot doubt, I must.

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